Il campiere di terracotta di Salvuccio Bellanca

“Il campiere di terracotta”, opera prima del giovane Salvuccio Bellanca, è un “cuntu” come quelli che si ascoltavano intorno al braciere quando televisione e internet erano ancora da venire. L’incipit ci conquista subito per la poetica descrizione di un ambiente agreste dove si nota una stretta connessione ora tra vari aspetti del mondo naturale ora tra lo stato d’animo dei personaggi ed il paesaggio . “La nuttata era calda. Colava afa ‘mpiccicusa e non si muoveva manco una foglia. La luna, candida come il marmo, faceva capolino tra le giglie rocciose che posavano le loro lunghe ombre sulla maisa settembrina. Pareva jornu. I mandorli sarbaggi, i carrubi e gli ulivi saraceni libravano nell’aria un sciavuro asprignu che si ammiscava prepotente con quello mieloso di gelsomini e di zagare,perdendosi lontano nella campagna di Manfrida.”

In questo idilliaco quadretto bucolico Minicu, il compiere di don Michele Cusenza, la notte del primo settembre, mentre si appresta a rientrare nel suo alloggio alla “Robba Ranni”, è raggiunto da quattro colpi di lupara che lo fanno, cadere dalla sua giumenta saura, rotolare a terra, stramazzando sul sagrato della chiesa di Santa Chiara. Preso a tradimento, non si era potuto difendere. Viene portato a casa di Cuncittina , che viveva poco distante dal luogo dell’agguato,per essere curato. Durante la convalescenza gli appare in sogno padre Tommaso di Castronovo che gli propone il ritrovamento di un immenso tesoro nascosto nella cripta della chiesa di Santa Chiara che lo renderà talmente ricco da poter comprare possedimenti e armenti più di quanto ne possiede il suo padrone. Deve, però, edificare una chiesa a pochi metri del luogo dove era stato ferito a morte e rinunciare a vendicarsi contro chi aveva attendato alla sua vita.

La vicenda segue l’andamento lineare della fabula con sfondo il feudo di Villanova, entroterra siciliano, contado di Manfrida,nel secondo dopoguerra, al tempo di bande e banditi.

Come nella fabula sono presenti tutti gli elementi dello schema enumerati dello studioso russo V. Propp: l’eroe protagonista, Minicu che è sottoposto a prove da superare, gli antagonisti, i due banditi, Aspanu Vicari, u carnizzaru e Cola Ficarra, u Rabatteri; l’aiutante, il monaco Tommasu di Castrunovu; l’aiuto,il tesoro;il superamento dell’ostacolo ed il ritorno a casa con una situazione migliore di prima.

Pur nella linearità della trama sono coinvolti numerosi personaggi ben delineati sotto il profilo fisico e psicologico. Tra i principali,in ordine agiscono:Cuncittina a Pacecota che, da giovane era stata tra le più belle ragazze del paese di Paceco e aveva fatto girare la testa a tanti ragazzi, ma aveva scelto per marito Marco Cigna che, oltre ad essere un picciotto a posto, aveva “robba, vigna, animali e una casa a Custonaci”. Con la morte sua morte colpi di lupara, una serie di disgrazie le rovinano la vita. Per la vergogna scappa lontano dal suo paese e arriva nella terra Manfrida ancora bella e piacente con una folta chioma corvina, un seno prosperoso, la vita stretta e le gambe snelle e ben tornite ,un viso, bello e terribile che nascondeva tristezza e orgoglio. I suoi occhi rotondi e nivuri e le pupille grandi e profonde come baddri di scupetta erano pronti a furminari chiunque con una sola taliata”. Fu Don Micheli che le offrì accoglienza e sostentamento e una casa a Villanova così viveva sola nel casale del padrone.

Rusariu Carrubba ‘ntisu “scupitteddra” per le sue scarse qualità fisiche e mascoline, un picciuttu addruvatu nelle terre di don Miche le Cusenza, uomo di fiducia, un accorda facenni.

Bardu Cipuddra, ”naschi lurdi “, un mezzo avanzo di galera .

Patri Turi Scalia, detto patri “manuzza” perché, malignavano i bene informati, I soldi delle questue spesso pigliavano la via delle sue tasche. Viveva con la sua perpetua, Vicenzina. Si mostra deferente allo scagnozzo di don Micheli ma, se avesse potuto, avrebbe scagliato anatemi e scomuniche contro la mala sorti. Subito dopo la cena fumava un sigaro, nel giardino retrostante la chiesa. Mostrava un “sorrisino da babbigno”e rispondeva al saluto con la faccia di stagno: un don Abbondio, un po’ più avido.

Don Filippo Graci, Fifì per gli amici, il medico conosciuto col nomignolo di “u magu” che curerà Minicu. Laureato pieni voti, In passato aveva lavorato presso l’ospedale, dove aveva conquistato la nomina di “magu perla grandissima capacità di risolvere anche i casi più difficili e disperati ,poi aveva preferito fare il medico curante. Eccellente uomo di scienze era una persona timorata di Dio, felicemente sposato con cinque figli.

Minicu Firrera, protagonista della fabula, era rimasto orfano da bambino poiché i genitori erano morti per un’epidemia di colera. Calmo e intuitivo crebbe sotto la guida della zia Alfonsina Mercadanti. Appena adolescente andò a lavorare nella masseria di don Michele e a ventun’anni fu promosso campiere e affiancato al collega Vincenzino Saia. Le sue doti di bontà e rettitudine, ma di severità con chi trasgrediva i comandi, vennero presto in luce. Preciso nel lavoro, non aveva fatto pentire don Michele della scelta fatta. Minicu non era sposato ,ma fin da bambino si era innamorato di Rosalia che poi, sposando don Michele, era diventata baronessa di Villanova. Dopo il matrimonio di Rosalia, Minicu, pur rimanendone innamorato, coltivò il suo sentimento nel segreto del suo cuore.

Personaggi minori: Gaetano Licata, soprannominato” pezza russa”, comunista che aveva avuto problemi con la giustizia. Durante il regime fascista era stato schedato come agitatore di folle e sovversivo. Arrestato parecchie volte, era sempre tornato in libertà.

Don Micheli Cusenza,ricco proprietario terriero, corpulento e sodo,dalla voce solenne. sveglio, intelligente e testardo. Da bambino aveva conosciuto anche lui la fame e le privazioni. Era rimasto orfano di entrambi i genitori prima di compiere sei anni. Fu allevato dagli zii che non gli risparmiarono umiliazioni e soprusi tanto che, che ben presto, lasciò la loro casa e andò a garzone in una masseria di Valledolmo, riversando il suo affetto su don Pippino che lo amò come figlio. E da cui assimilò saggezza di carattere e capacità di discernimento. Accumulato il denaro necessario, partì per l’America da dove ritornò, parecchi anni dopo, costruendosi un vasto impero. Fino a sessant’anni non si era sposato e si serviva di Concettina pacecota sia come “criata “sia per soddisfare gli istinti sessuali, asserendo che “ogni tinta acqua leva siti”. Il giorno del Santissimo sacramento conobbe Rosalia, figlia del barone Carmine Antonio di Villanova, nobile decaduto. La ebbe in sposa in cambio di una consistente dote per consentire al di lei padre di risanare i debiti di gioco e rimettere in sesto il signorile palazzo di Villanova .

Rosalia, sebbene fosse segretamente innamorata di Minicu Firrera, acconsente ad andare sposa a un uomo che aveva il triplo dei suoi anni: da vittima sacrificale s’immola sull’altare della paterna salvezza.

Il racconto, che ci riporta indietro di parecchi lustri, serve all’autore per rappresentare i vari aspetti della vita, lo scontro tra il bene e il male, la lotta contro la sopraffazione, la prepotenza, l’ignoranza: i mali del vivere. Per raggiungere più facilmente il cuore del lettore, l’autore fa uso abbondante di metafore, metonimie, anafore e ironia, delineando il paesaggio attraverso un intreccio di sensazioni visive,uditive ed olfattive , fonti di luci, suoni ed aromi ora vicini ora lontani. Il linguaggio intriso di termini e modi di dire dialettali in via di estinzione ,viene usato dall’autore “per rendere più realistici fatti e personaggi e per tramandare i fotogrammi di un passato non troppo lontano, e l’atmosfera di un mondo che non va dimenticato.”

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Scritto da: Bonomo_Rosetta - il 9 ottobre 2011 - Categoria: Recensioni mussomelesi - Nessun Commento -

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